L’Area Cura e Educazione 0-6 riconosce come elemento centrale del suo metodo di lavoro la costruzione di relazioni di rete con i servizi e i progetti del territorio, per rendere più solido e duraturo il benessere di bambini e bambine e delle loro famiglie. Questo significa, non solo avere una mappa dei servizi per l’infanzia presenti, ma anche coltivare relazioni strutturate con i e le professioniste del mondo sanitario, sociale e educativo, condividendo visioni e progettualità. Un esempio concreto di questa metodologia di lavoro è rappresentato dal territorio di Milano, dove numerosi attori che si occupano di infanzia si incontrano periodicamente per rispondere in modo coordinato a richieste e problematiche che emergono nelle relazioni con le famiglie. 

Un ruolo fondamentale, in questo scacchiere, è sicuramente svolto dai consultori familiari, spazi di cura della salute riproduttiva e sessuale, ma anche e soprattutto di sostegno psico-sociale delle famiglie, degli adolescenti, dei ragazzi e delle ragazze. Ne parliamo con Paola Pileri, coordinatrice dei consultori dell’ASST Fatebenefratelli Sacco.

Pileri, cominciamo con un accenno alle origini: quando sono stati istituiti i Consultori e perchè sono così importanti ancora oggi?

I consultori nascono nel 1975, un momento storico caratterizzato da un grandissimo desiderio e bisogno di parlare della salute delle donne, intesa come sistema di offerta di servizi alle persone, ma soprattutto come lavoro sul cambiamento della coscienza sociale.

Era un momento di grande attivismo dei movimenti femministi e di grande impegno riformista a tutela dei diritti civili: sono di quell’epoca la riforma del diritto di famiglia, referendum sul divorzio e la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Ma il valore dei consultori, a mio parere, è proprio nel fatto che essi nascono come spazi accessibili, gratuiti e capillari per promuovere la salute della donna. Il fatto che i consultori fossero luoghi di tutela del diritto di interrompere la gravidanza è senz’altro un risultato da rivendicare, ma al contempo rischia di offrire una visione limitata dell’enorme pluralità di attività che il Consultorio promuove.

Oggi i Consultori sono ancora molto importanti. Però, per essere davvero rilevanti, nella realtà sociale attuale, devono trovare un’identità che vada oltre la sola promozione della salute riproduttiva della donna. Sono luoghi in cui si risponde ai bisogni della donna in tutte le fasi della sua vita, superando l’idea che l’utente del consultorio sia solo la donna in età fertile. Il Consultorio, oggi, si rivolge alle famiglie, quindi alle donne, ma anche agli uomini e, ovviamente, ai e alle minori. Accoglie i bambini e le bambine nei primi mille giorni, insieme alle loro madri e padri, ma anche il/la preadolescente in età puberale, l’adolescente che si misura con i cambiamenti del proprio corpo e dei propri desideri, fino alle fasi di vita più avanzate della menopausa e andropausa e della sessualità matura.

La realtà consultoriale è molto diversificata, essendo la sanità una competenza regionale, ogni territorio declina i propri servizi sanitari con modalità diverse. La Regione Lombardia, per diverse ragioni, negli ultimi anni sta rilanciando l’attività consultoriale; certamente una delle ragioni è legata agli effetti devastanti della pandemia di Covid sul modello assistenziale regionale.  Il Covid, infatti, ci ha in qualche modo obbligati a comprendere come il territorio debba essere protagonista sul piano della promozione della salute e sul piano dell’assistenza, soprattutto quella di primo livello, lasciando alle strutture ospedaliere solo la gestione delle patologie acute e di grande complessità.  

Qual è il valore aggiunto del Consultorio familiare, anche rispetto ad altri servizi ambulatoriali e di medicina territoriale?

A differenza degli ambulatori, i Consultori non sono erogatori di prestazioni, ma sono spazi di accoglienza e ascolto. In questo sono più simili a un servizio di medicina di base, o al medico di famiglia.

Il consultorio deve diventare il posto dove offrire un sostegno psico-fisico e sociale alle donne, agli e alle adolescenti, ai ragazzi e alle ragazze, alle coppie e alle famiglie, ovviamente intese in modo esteso.

 Questa per me è la sfida del Consultorio nel 2024, che attraversa una fase di cambiamento proprio come la società: gli operatori e le operatrici dei consultori non possono più essere relegati dentro quattro mura; bisogna ritornare nelle scuole per giocare un ruolo non dogmatico, per fare in modo che docenti, genitori, ragazzi e ragazze siano autonomi nel gestire argomenti quali la sessualità e l’affettività nel quotidiano. È necessario lavorare con il mondo dell’educazione in modo programmatico, perché per parlare di consenso, rispetto, affettività e relazioni, due ore una tantum non bastano: sono temi che si possono e si devono incontrare tutti i giorni, in modo trasversale in tutte le materie.

I Consultori devono tornare al loro ruolo sociale per incontrare i bisogni di salute sessuale e riproduttiva delle persone. Ad esempio, se parliamo di salute della donna, il consultorio deve “intercettare” le ragazze, accompagnarle in scelte riproduttive libere e consapevoli, nella contraccezione, e poi nella gravidanza laddove sia una scelta, oppure nell’interruzione volontaria della stessa, se non desiderata. Quelle stesse ragazze diventano adulte che sviluppano bisogni diversi: il consultorio deve essere, ad esempio, un presidio anche per sostenere le donne adulte e quelle in menopausa. Le donne che attraversano oggi questa fase di vita sono donne vitali, spesso madri di bambini piccoli, sono professioniste attive e quindi il consultorio deve essere la realtà dove poter trovare un’equipe multidisciplinare che possa accogliere il bisogno delle donne in ogni fase della loro vita.

La lettura del bisogno è un aspetto fondamentale del lavoro dei consultori. Da noi, ad esempio, l’accoglienza viene sempre fatta da una figura infermieristica, un’assistente sanitaria, o un’ostetrica che fa un lavoro di counseling. Prima di essere visitata, la persona trova uno spazio in cui parlare di sé, di eventuali dipendenze o violenze subite, in cui scoprire quali sono gli screening più appropriati e cosa comportano, insomma, uno spazio libero in un vero e proprio counseling di salute.
Solo successivamente arriva il momento clinico specialistico, che si definisce in base al bisogno rilevato: ginecologico, psicologico, educativo, oppure più aspetti in contemporanea. Può emergere un bisogno sociale, per cui si attivano degli assistenti sociali che collaborano con consulenti legali. In alcuni consultori esiste la mediazione familiare, perché è importante assistere la famiglia in momenti di crisi che possono sfociare in una separazione, offrendo spazi per un percorso di coppia che agevoli separazioni consensuali, evitando il contenzioso giuridico o, nel caso ci sia già un contenzioso giuridico in atto, si fa di tutto per evitare il ricorso al tribunale per i minorenni e agli organi di tutela. Questo lavoro è possibile grazie ad un lavoro di rete molto articolato, sia con il terzo settore, sia con il Comune di Milano, sia con il Tribunale.

Però accanto a questo, il consultorio eroga anche vere e proprie prestazioni

Certamente. Nei consultori vengono erogate anche alcune tipologie di prestazioni, ed è fondamentale che ci sia un up-to-date scientifico continuo, tanto quanto negli ospedali. La formazione del personale, sia teorica che pratica, è continua e costante. Quest’anno, ad esempio, abbiamo attivato un percorso di formazione sulla muscolatura del pavimento pelvico, proprio per rispondere ai bisogni delle donne in menopausa o in perimenopausa. Questo di sicuro non era un tema prioritario quando sono nati i consultori, ma se oggi il 40% delle donne a 50 anni usa degli assorbenti per l’incontinenza urinaria, forse è un tema che non può più essere nascosto e sul quale occorre essere adeguatamente aggiornati.  Non lo dico per entrare in dettagli tecnici, ma per far capire come l’offerta di un servizio di consultorio cambi insieme ai bisogni della popolazione. 

Infine, anche se non si tratta di una vera e propria prestazione in senso clinico, non posso non citare il sostegno del consultorio familiare alle famiglie che vogliono adottare un bambino/a. Abbiamo istituito il centro adozioni, collaboriamo con il Tribunale per i minorenni per tutte le adozioni nazionali e, nel post adozione, su mandato del Tribunale, anche per le adozioni internazionali.

In che consiste questo tipo di lavoro?

Oltre agli aspetti giuridici, viene svolto un lavoro enorme di preparazione delle famiglie alle adozioni, perché spesso le coppie hanno un’idea romantica dell’adozione ed è necessario prepararle ad una realtà complessa, soprattutto quando parliamo di bambini grandi, o provenienti da determinati paesi, o in certe condizioni psicologiche o sanitarie. Da quest’anno siamo tornati a occuparci della genitorialità delle famiglie adottive durante l’adolescenza, tramite l’organizzazione di gruppi in cui re-incontriamo i genitori adottivi in una fase critica per tutti e tutte, ma ancora di più per i ragazzi e le ragazze adottati. Lavoriamo anche con le scuole primarie per dare delle indicazioni su come gestire la narrazione della propria storia personale con bambini e bambine ai quali, molto probabilmente manca un pezzo della propria storia personale oppure, quando esiste, è particolarmente traumatica. Capita, infatti, che le insegnanti chiedano foto dell’infanzia, o della gravidanza, innescando dinamiche dolorose e difficili da gestire a scuola e a casa. Ecco, questo è un po’ il quadro generale dell’impegno dei consultori nell’accogliere bisogni multidisciplinari in un’ottica a 360 gradi.  Ma il messaggio su cui vorrei insistere è proprio che i consultori familiari non sono erogatori di prestazioni. Credo debba esserci, sempre di più anche nei percorsi universitari, una preparazione specifica e professionale alla medicina territoriale, perché è bello pensare che quando tu entri in consultorio sai che lì ha dei punti di riferimento a cui poter chiedere e che saranno in grado di capire qual è il tuo bisogno.

Come si declina l’idea di accoglienza e rispetto con le famiglie più fragili, con background migratorio, o in situazione di povertà?

Noi abbiamo l’enorme fortuna di lavorare con mediatrici culturali e, in base al territorio in cui si trovano i consultori, ci sono giorni dedicati a lingue e paesi diversi. Quindi, cerchiamo di fissare gli appuntamenti più delicati quando è presente una mediatrice, sottolineando al tempo stesso che, per pratiche più ordinarie, l‘accesso è possibile anche senza appuntamento.

In alcuni consultori si organizzano dei gruppi mono lingua in arabo, che nascono dalla necessità di ottimizzare il tempo del personale sanitario e delle mediatrici, dando le informazioni fondamentali su alcuni aspetti, come allattamento e training perinatale; ma lavoriamo molto anche per invitare le donne negli spazi open, ovvero spazi aperti di confronto in gruppo, per adolescenti e donne mamme ad accesso libero, senza prenotazione, in cui si affrontano diverse tematiche.  Diciamo loro: “venite, anche se non capite tutto quello che viene detto, vi bevete il tè con noi, state lì, cambiamo il bambino, lo pesiamo, stiamo insieme”.  Il nostro augurio è che entrando in questo sistema e in questi gruppi, oltre a promuovere uno stile di vita più sano, si crei un senso di fiducia  nell’operatrice, così che possa diventare un punto di riferimento anche in situazioni più delicate, come, ad esempio, in caso di sfruttamento o violenza.

In che modo il mondo del sociale, delle reti, dell’associazionismo, può collaborare con l’ambito consultoriale e la medicina di territorio?

Il limite di tutti i servizi sociosanitari pubblici è quello di essere vincolati allo spazio e alle risorse, mentre l’area sociale è più dinamica, può accompagnare davvero a tutti i servizi, non solo a quelli sociosanitari.

Mi viene in mente il grande lavoro che è stato fatto in alcuni territori, in modo integrato tra consultorio e reti, sull’assistenza alle donne straniere nella ricerca di lavoro, nell’apprendimento dell’italiano, per aiutarle a sostenere la gestione della vita familiare in modo autonomo dai mariti, che spesso lavorano 90 ore a settimana. Questi sono bisogni che il consultorio legge, ma su cui non può lavorare. Noi possiamo essere solo un ponte verso chi può attivare dei gruppi di lingua o di cucina, o che può sostenere donne sole sia italiane che con background migratorio, e scongiurare depressioni perinatali drammatiche. Spesso noi donne vediamo la maternità come una performance da portare avanti, viviamo di aspettative e delusioni. Dobbiamo essere noi operatori sociali e sanitari ad intervenire e accompagnare ad accettare che la maternità ha sfumature molto diverse e che tutte le mamme sono adeguate.

Ti faccio un’ultima domanda sulla collaborazione con i progetti promossi da Save the Children sui primi mille giorni, Fiocchi in Ospedale e Permano Qubi. Quali sono state le esperienze più significative in questi anni?

Io sono una delle vostre più grandi fan, ma vorrei citare alcuni casi che abbiamo gestito con Fiocchi in Ospedale quando lavoravo come ginecologa all’ospedale Sacco[1].

Il Sacco è una realtà territoriale particolare, situato a Quarto Oggiaro, un quartiere socialmente molto stratificato, con fragilità familiari non sempre evidenti. Spesso venivamo in contatto con situazioni di violenza che venivano vissute o sfiorate, ma mai raccontate. Ricordo donne arrivate in Italia da pochissimo tempo, che si trovavano ad affrontare la maternità senza parlare una parola di italiano. In questi casi le operatrici di Fiocchi in Ospedale ci sono state vicine, hanno svolto una funzione che noi sanitari non siamo in grado di svolgere. Anche perché io faccio la ginecologa, e se all’ospedale Sacco in una mattina visito 20 donne incinte, anche se ho tutte le antenne del mondo alzate, non riesco a spiegare ad una donna che non parla in italiano come si può prenotare la vista dall’anestesista, o come fa ad iscrivere il figlio grande all’asilo, o come poter avere i sussidi che le spettano di diritto. Non ci riuscirei, anche se fossi la persona più capace, disponibile e informata.

L’ospedale lascia sempre una lettera di istruzioni al momento delle dimissioni. Ma poi le donne che cosa se ne fanno? Spesso non hanno le informazioni necessarie a capire fino in fondo che cosa c’è scritto, e quindi è necessario un dialogo, un orientamento o a volte proprio un accompagnamento in consultorio, alla scelta del pediatra, al rinnovo della tessera sanitaria. E questo non vale solo per le donne che non conoscono la lingua.

Il terzo settore, e in particolare i progetti di Save the Children con cui collaboriamo, si è assunto la responsabilità di far parlare il territorio con l’ospedale: mission impossible a volte, ma fondamentale! I Consultori in questo devono essere i primi alleati.

[1] Ospedale sito nel quartiere periferico di Quarto Oggiaro, nordovest di Milano