Da molti anni parliamo di comunità di cura, intendendo con questo termine, al tempo stesso un obiettivo pratico e un approccio di lavoro, col quale guardare ai bambini e alle bambine, riconoscendo la diversità dei loro bisogni e provando a cucire per ciascun bisogno una risposta adeguata, tempestiva e soddisfacente. La comunità di cura raccoglie e armonizza, ascolta e accompagna, interviene anche con il linguaggio indiretto dell’organizzazione e del rispetto degli ambienti, con la capacità di includere e di sostenere le persone e le famiglie più vulnerabili, di guardare oltre il proprio ambiente e i propri confini.

Abbiamo letto con interesse quindi la recente pubblicazione “Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza”, realizzata dal collettivo inglese “The Care Collective”, che volevamo presentare in questo sito per proporlo all’attenzione di tutte le persone, operatrici e operatori, ricercatrici e ricercatori, che quotidianamente praticano il lavoro sociale a contatto con famiglie, bambini e bambine.

 

Poi ci siamo imbattuti nella recensione fatta da Laura Fano per il blog Femministerie ed è stato bello scoprire la sintonia di sguardo e apprezzare la competenza e la grazia con cui l’autrice ha saputo raccontare questo libricino, cogliendone, sia gli spunti pratici per chi, come noi, lavora con le relazioni e le politiche sociali, sia l’invito più generale a guardare oltre il delirio di autosufficienza di cui è impastato il nostro mondo.

 

Di seguito riportiamo la versione integrale del testo scritto da Laura Fano.

 

Mai come in questo periodo di pandemia si sente parlare di cura, concetto declinato in ogni possibile modo, e molto spesso abusato. Il libro Manifesto della Cura. Per una politica dell’interdipendenza scritto dal collettivo inglese The Care Collective, ed edito in Italia da Alegre, ha il merito di riportarlo al suo significato più ampio, radicale e politico possibile. Emerge, da questo testo, un’idea di cura come una visione altra del mondo rispetto alle nostre società devastate dal neoliberismo, un’etica della responsabilità e della condivisione che, nelle parole di Naomi Klein, rappresenta “la pratica e il concetto più radicale che abbiamo oggi a disposizione”.

Il neoliberismo ha trasformato la cura in una pratica individuale e mercificata, riservata solo a chi ha i mezzi per accedervi e prendersi cura di sé. Anche molti servizi sanitari e sociali sono stati privatizzati e resi accessibili solo a quella fetta di popolazione che può permettersi di pagare. Sebbene l’analisi del collettivo parta dal contesto di Regno Unito e Stati Uniti, dove questa privatizzazione ed esternalizzazione di servizi di base è sicuramente più avanzata rispetto al nostro paese, il neoliberismo ha dovunque contribuito a creare una società atomizzata e individualista, dove ognuno deve “curarsi” da solo. Se in questo tipo di società la povertà è una colpa, così il bisogno di cura è visto come una debolezza. Paradossalmente, chi ne fa più uso, i ricchi, non se ne devono vergognare perché possono pagarla, delegando sempre più compiti a badanti, babysitter, giardinieri e lavoratrici domestiche, specialmente migranti, contribuendo a creare una società non solo disuguale, ma anche basata sullo sfruttamento del lavoro di persone straniere e non bianche. Per tutti gli altri regna invece l’incuria, in questo “sistema di solitudine organizzata”.

Secondo il collettivo, “la pandemia ha reso evidente l’incredibile violenza del mercato neoliberista, il modo in cui ci ha privato della capacità di fornire e ricevere cura.” Ma la pandemia ha anche reso evidente come sia impossibile per l’umanità funzionare come esseri atomizzati, ha mostrato chiaramente come la nostra interdipendenza non sia solo necessaria, ma anche un valore su cui costruire nuove pratiche di democrazia. Già anni fa, Naomi Klein, citata varie volte nel libro e presente in copertina con una sua frase di apprezzamento, ci avvertiva nel suo This Changes Everything, che l’emergenza climatica e ambientale stava ponendo al centro l’importanza della cura, sia delle persone che del pianeta. Di fronte ad eventi climatici estremi sempre più frequenti, l’autrice affermava che la cura e i lavori ad essa connessi sarebbero diventati sempre più fondamentali e suggeriva che gli investimenti statali venissero indirizzati verso settori quali la sanità, l’istruzione, i servizi sociali.

Se l’etica della cura al centro del Manifesto è dunque un’etica ambientalista, ancor più è un’etica femminista. Parte infatti dalla distinzione operata dalla studiosa femminista Joan Tronto del “prendersi cura di” (caring for), “interessarsi a” (caring about) e “prendersi cura con” (caring with). Se l’autonomia e l’indipendenza, così esaltati dal neoliberismo, hanno assunto valore perché considerati legati alla sfera maschile, la cura è da sempre considerata appannaggio delle donne e capacità innata del mondo femminile. Questo relegare il lavoro di cura all’interno delle mura domestiche ha contribuito, come ci insegna l’economia femminista, a svalutarlo. Inoltre, il fatto che la cura generi emozioni ambivalenti, tra cui il disgusto, ha fatto sì che di essa si dovessero occupare donne o soggetti femminilizzati. Per ridare valore alla cura è necessario dunque che il lavoro riproduttivo, nella sua più ampia accezione, sia portato fuori dalla casa e socializzato, attraverso comunità di cura che travalichino e soppiantino la famiglia nucleare, così funzionale al capitalismo.

Il libro illustra molte esperienze di comunità di cura, di spazi e risorse comuni, quei commons già oggetto di studio da parte di Silvia Federici e da lei descritti non come beni, bensì come processi in cui si costruiscono nuove relazioni sociali anticapitaliste. In queste esperienze l’etica della cura è già una realtà. Tuttavia, queste pratiche dal basso non devono trarre in inganno. Sebbene importantissime, esse non possono e non devono sostituirsi ai compiti e alle responsabilità degli Stati, semmai mostrare loro la strada. La democrazia della cura deve costituire un nuovo paradigma statale e transnazionale che integri il welfare state, allargando i beneficiari dei servizi statali fino ad includervi chiunque, superando così il concetto di cittadinanza e quello di confine. Il collettivo introduce infatti il concetto di “cura promiscua” – una cura che riguardi tutti e tutte – e “indiscriminata” – ossia che non discrimina.

La cura, da concetto abusato e utilizzato in maniera vaga, diventa così qualcosa di molto concreto che ci mostra la strada per il futuro: un imperativo etico ed una responsabilità politica, della collettività così come delle istituzioni”.