“Tra piazze di spaccio, serrande abbassate e appartamenti occupati, Ponte di Nona è l’emblema di una periferia dimenticata, segnata dall’assenza di luoghi d’incontro e aggregazione. Da un lato, cumuli di rifiuti abbandonati sul ciglio della strada, che i residenti finiscono per bruciare o che sono spazzati via dalle auto, che sfrecciano lungo via Don Primo Mazzolari e via Caterina Usai. Dall’altro, un grande parco pubblico, lasciato all’incuria e al degrado. Basta fare pochi passi a piedi, lungo i marciapiedi sconnessi e dissestati delle vie del quartiere per cogliere l’istantanea di una lotta tra poveri. Poveri che, nel disperato bisogno di ritagliarsi un proprio spazio di dignità e stabilità, seppure illusorie, hanno preso la strada dell’illegalità”. Cit. Chiara Colangelo, Università Iulm, Milano.

Partendo da questa descrizione ci si chiede: cosa significa per gli operatori sociali lavorare in un contesto come quello di Ponte di Nona, alla periferia est di Roma? Anna Dinuovo, psicologa e psicoterapeuta, racconta l’esperienza degli operatori e delle operatrici dello Spazio Mamme, progetto di cui è coordinatrice per la cooperativa Santi Pietro e Paolo di Roma, partner di Save the Children. 

 

Il contesto territoriale

Ponte di Nona è un quartiere alla periferia est di Roma, caratterizzato da un’urbanizzazione relativamente recente e da una forte espansione residenziale. Nonostante la crescita demografica, la zona presenta numerose criticità, che incidono sulla qualità della vita dei suoi abitanti e, in particolare, delle famiglie più fragili. La mancanza di un adeguato sviluppo dei servizi e delle infrastrutture sociali, dedicate all’infanzia e alle famiglie, come asili nido, scuole materne, consultori e centri di aggregazione, ha contribuito a creare un contesto segnato da marginalità sociale e dinamiche di prevaricazione, aggravate da un alto tasso di povertà e disoccupazione, che esitano a volte in fenomeni di microcriminalità. Sul territorio sono, infatti, presenti gruppi legati al racket delle case popolari e allo spaccio di droga.

A Ponte di Nona si fa fatica a trovare un lavoro e, spesso, “un impiego” lo dà il mondo dell’illegalità, che riesce a intercettare giovani e adulti, privi di alternative e modelli positivi. Questi gruppi esercitano un controllo informale sul quartiere, rendendo difficile l’intervento delle istituzioni e alimentando un clima di paura e omertà. Molte famiglie, per timore di ritorsioni o per sfiducia nelle istituzioni, evitano di denunciare episodi di violenza o soprusi. La mancanza di spazi di aggregazione e la fragilità del tessuto comunitario complicano la creazione di reti di supporto solidali tra le famiglie che, spesso, si trovano isolate nel gestire le loro difficoltà.

Inevitabilmente bambin* e ragazz* di Ponte di Nona crescono in un habitat complesso, dove il rischio di trascuratezza e povertà educativa, quando si manifestano all’interno dei nuclei familiari, oltre ad esporre ragazze e ragazzi alla fascinazione acritica verso contesti e figure di riferimento violente, omofobe o razziste, offrono anche un ambiente familiare estremamente critico. 

Alcuni nuclei infatti esercitano, come “attività di famiglia”, la compravendita di droga, mentre altre famiglie preferiscono/pretendono aiuto esclusivamente da parte dei servizi sociali o delle istituzioni, senza cercare in alcun modo di risolvere i loro problemi in modo autonomo. L’assistenzialismo si manifesta attraverso la dipendenza e la passività nell’approccio al cambiamento e la convinzione che i servizi debbano coprire tutte le necessità. Tale ottica può portare alla percezione di avere diritto ad aiuti costanti, senza la consapevolezza che la responsabilità del cambiamento risiede anche nelle scelte quotidiane e nei comportamenti. Le famiglie, che dipendono dai servizi, sviluppano bassa autostima e passività, che gli operatori sociali possono contribuire a contrastare, utilizzando un approccio che promuova l’autonomia, l’empowerment e la partecipazione attiva delle famiglie. L’obiettivo non deve essere quello di risolvere problemi immediati, ma di aiutare le famiglie a sviluppare le competenze per affrontare in modo autonomo le difficoltà quotidiane. 

Lavorare con famiglie fragili in un contesto come quello di Ponte di Nona significa quindi confrontarsi quotidianamente con una forte diversità culturale, che può rappresentare sia una ricchezza, sia una sfida. Le barriere linguistiche e comunicative limitano la comprensione dei servizi disponibili: molti genitori faticano a orientarsi tra le opportunità offerte dal sistema sociale, sanitario e educativo, spesso senza riuscire a coglierne appieno il funzionamento. La compilazione di documenti, così come la comprensione di diritti e doveri, diventa un’impresa complessa, aggravata dal fatto che, in molti casi, sono i più piccoli, soprattutto se nati in Italia, a fungere da mediatori linguistici per i genitori. Questo fenomeno genera un’inversione dei ruoli che, pesando sullo sviluppo e sul benessere dei bambini e delle bambine, può risultare problematica. A questo si aggiunge la difficoltà di accesso ai servizi essenziali, come il sostegno economico e l’assegnazione di alloggi adeguati. Le famiglie migranti, prive di una rete di supporto informale, si trovano, spesso, ad affrontare ostacoli burocratici o, in alcuni casi, forme di discriminazione istituzionale. Questi fattori le rendono più vulnerabili alla precarietà abitativa e lavorativa, alimentando la loro insicurezza, a danno del loro percorso di stabilizzazione.

Un ulteriore fenomeno, diffuso tra le famiglie del territorio e che spesso, purtroppo, rimane sommerso, è quello della violenza domestica. Nonostante la violenza domestica non abbia una radice socio-ambientale, ma sia l’effetto di un paradigma culturale di tipo patriarcale assolutamente trasversale, in alcuni contesti, come quello che si sta esaminando, la consapevolezza personale e il supporto all’emersione sono particolarmente deboli. La violenza si ritiene un fatto privato, di cui vergognarsi, e, soprattutto, non esistono risorse di fiducia verso il proprio territorio che possano spingere le donne a trovare alleanze e supporto. La mancanza di alloggi adeguati e accessibili rappresenta un ulteriore ostacolo per chi cerca una via d’uscita, costringendo molte donne e bambin* a rimanere intrappolati in situazioni di pericolo.

Dunque, oltre agli aspetti di povertà materiale in senso stresso, si può dire che il processo di interazione e ricomposizione sociale nell’area di Ponte di Nona risulta complesso. La mancanza di relazioni di vicinato e il senso di estraneità rispetto al contesto locale possono rendere difficile il coinvolgimento delle famiglie, specie quelle migranti, nei percorsi di supporto. La diffidenza reciproca tra famiglie autoctone e straniere rappresenta un ulteriore ostacolo alla creazione di legami di fiducia e solidarietà, limitando le opportunità di accesso alle risorse della comunità. Solo attraverso la pratica di un approccio partecipativo, che metta al centro la fiducia, la disponibilità all’ascolto, al dialogo e alla collaborazione, è possibile attivare dinamiche di animazione del territorio all’interno delle quali ogni famiglia, indipendentemente dalla sua provenienza, possa sentirsi parte attiva e riconosciuta. Ma non basta volerlo. Per avviare un percorso di questo tipo occorrono risorse economiche, progettuali, umane e organizzative. Lo Spazio Mamme di Ponte di Nona è un piccolo laboratorio di animazione territoriale, un pizzico di lievito nella grande pasta di un territorio molto complesso.

 

Tra empatia e professionalità: il delicato equilibrio degli operatori sociali

Lavorare con famiglie fragili, specialmente con bambin* piccol*, significa entrare in punta di piedi nelle loro storie, nei loro dolori e nelle loro speranze. Gli operatori dello Spazio Mamme di Ponte di Nona non si fermano alla semplice erogazione di un servizio, il loro lavoro è fatto di sguardi, parole non dette, esitazioni, tentativi di fiducia e, a volte, rifiuti. Ci troviamo immersi in un tessuto sociale complesso, fatto di difficoltà economiche, isolamento, traumi e cicatrici invisibili che, spesso, si tramandano di generazione in generazione.

Molte famiglie, pur avendo un bisogno urgente di sostegno, faticano ad accettarlo. C’è chi ha avuto esperienze negative con le istituzioni, chi vede con sospetto ogni forma di aiuto, chi si sente giudicato e preferisce rimanere nell’ombra. Le operatrici, con la loro presenza costante, ma discreta, provano a costruire ponti, a smussare diffidenze, a essere dei riferimenti senza diventare invasive… Ma non è facile!

Lavorare in un contesto, dove le fragilità s’intrecciano in un labirinto di difficoltà quotidiane, significa affrontare una duplice contesa: da un lato, il desiderio di fare la differenza, di cambiare le cose; dall’altro, la consapevolezza che non tutto può essere risolto, che ci sono limiti invalicabili.

 

Il peso invisibile della responsabilità

Quando una famiglia si chiude in sé stessa e rifiuta ogni aiuto, quando un/una bambin* mostra segnali di disagio, ma non si riesce a intervenire in tempo, il peso emotivo può diventare insostenibile. Il rischio è di sentirsi sopraffatti dalla frustrazione e dal senso d’ impotenza, finché diventano insopportabili.

Ogni storia ascoltata lascia un segno, ha un impatto psicologico che comporta un forte coinvolgimento emotivo. Non si può restare indifferenti davanti a una madre che abbassa lo sguardo, perché non sa come occuparsi delle proprie creature. Così l’empatia, che è la chiave di questo lavoro, può trasformarsi in un’arma a doppio taglio, rischiando di logorare ogni giorno chi si dedica a queste famiglie con dedizione.

Inoltre, in un mondo ideale, ogni servizio dovrebbe essere perfettamente coordinato, ogni scuola collaborativa, ogni ente istituzionale pronto a intervenire con risposte tempestive. Ma la realtà è spesso diversa: i servizi sono frammentati, le risorse insufficienti, la burocrazia lenta. A volte gli operatori e le operatrici si trovano a colmare lacune nella rete dei servizi, caricandosi di responsabilità che non hanno però il potere di esercitare.  

 

Trovare un equilibrio per non perdersi

Come si può, dunque, continuare a lavorare con passione senza lasciarsi schiacciare dal peso emotivo? La chiave sta nel trovare un equilibrio, nel creare strategie, che permettano di essere presenti senza annullarsi, di aiutare senza sentirsi onnipotenti. Le operatrici dello Spazio Mamme cercano di accettare i propri limiti, riconoscendo che non tutto può essere risolto: questo è il primo passo per lavorare con maggiore serenità. Riconoscendo di non poter trovare una soluzione a tutti i problemi, ma di essere delle guide, dei punti di riferimento che offrono informazioni e strumenti, affinché le famiglie possano, quando pronte, intraprendere il proprio percorso.

Gli operatori e le operatrici lavorano in équipe, perché nessuno può portare questo peso da solo. Confrontarsi con i colleghi, condividere esperienze, avere uno spazio sicuro, in cui parlare delle proprie difficoltà, è essenziale per non sentirsi sopraffatti.

E, infine, operatrici e operatori fanno supervisione e formazione continua per poter godere di momenti dedicati alla riflessione e alla rielaborazione delle esperienze vissute, che aiutano a non accumulare stress, a trovare strategie più efficaci, a proteggere il proprio benessere emotivo.

 

Il valore di esserci

Nonostante le difficoltà e le battaglie perse, nonostante la frustrazione che a volte sembra soffocare tutto, c’è qualcosa che continua a dare senso a questo lavoro. Sono i piccoli traguardi, spesso impercettibili agli occhi di chi guarda da fuori, ma straordinari per chi li vive da dentro.

È il/la bambino/a che all’inizio del percorso faticava a fidarsi e ora ti corre incontro con un sorriso. È la madre che, dopo mesi di silenzi, finalmente trova il coraggio di chiedere aiuto senza vergogna. È il padre che, per la prima volta, partecipa a un incontro scolastico, riconoscendo l’importanza del suo ruolo. È la famiglia che, con fatica, ma con determinazione, prova a cambiare, anche solo un po’.

E così, tra difficoltà e speranza, tra ostacoli e piccole conquiste, si va avanti. Non per salvare, non per risolvere tutto, ma per esserci. Con empatia, con consapevolezza, con il cuore, ma anche con la lucidità e la professionalità di chi sa che il vero cambiamento non può essere imposto, ma solo accompagnato. E questo non è un gesto di buona volontà, ma l’effetto di una competenza professionale strutturata che si chiama lavoro sociale e di animazione territoriale.

 

Testimonianze degli operatori e delle operatrici

M., educatrice

“All’inizio del mio lavoro pensavo di poter cambiare davvero la vita delle famiglie, con cui lavoravo. Mi affezionavo tantissimo ai bambini e ai loro genitori, cercando di aiutarli in ogni modo possibile. Ma presto ho capito che non tutto dipende da noi operatori. Ci sono problemi più grandi: la povertà, la burocrazia, la mancanza di servizi, che non possiamo risolvere da soli. Ho dovuto imparare a mettere dei confini, perché tornavo a casa con un peso enorme e con la sensazione di non aver fatto mai abbastanza. Oggi cerco di fare il massimo, ma senza farmi schiacciare da questo senso di responsabilità totale.”

L., educatore

“Uno degli aspetti più difficili è l’aggancio delle famiglie. Spesso chi avrebbe più bisogno di aiuto è anche chi si fida meno dei servizi. Ho dovuto lavorare molto sulla costruzione della fiducia, ma anche sulla mia capacità di accettare che non sempre le persone sono pronte o disposte a ricevere aiuto. In passato mi arrabbiavo quando vedevo genitori che non seguivano i nostri consigli o che sembravano disinteressati al benessere dei figli, poi ho capito che dietro c’è, spesso, un vissuto di sfiducia, di frustrazione e di fallimenti accumulati. Ho imparato a non prenderla sul personale e a fare un passo alla volta con loro.”

F., educatrice

“Una delle esperienze più difficili che ho vissuto è stata con una mamma vittima di violenza, sola, con quattro bambin* piccol* e senza nessuna rete di supporto. Era sopraffatta dalla sua situazione e, spesso, non riusciva nemmeno a venire agli incontri. Io mi preoccupavo tantissimo per lei e per i suoi figli e ho iniziato a sentire un senso di responsabilità enorme. Ero tentata di fare più del dovuto, di aiutarla anche al di fuori del mio ruolo, ma con il tempo ho capito che non potevo sostituirmi a lei. Ho dovuto accettare che il mio compito era quello di accompagnarla, non di salvarla. Questa consapevolezza mi ha aiutata a lavorare meglio e a proteggere me stessa dal burnout.” 

R., educatrice

“Uno dei problemi principali è il senso d’impotenza. Ci sono giorni, in cui senti di aver fatto un buon lavoro, in cui vedi progressi nei bambini o nelle famiglie. Ma poi ci sono giorni, in cui vedi situazioni così difficili che ti sembra di non poter fare nulla. Ricordo un padre che non riusciva a trovare lavoro e che, nonostante il nostro aiuto, continuava a sentirsi fallito. Mi sono resa conto che, per quanto potessi ascoltarlo e sostenerlo, alcune cose erano fuori dal mio controllo. Questo è stato un passaggio importante per me: accettare che non possiamo aggiustare tutto, ma che anche un piccolo cambiamento, un gesto, un ascolto, può fare la differenza.”

A., educatrice

“Lavorare qui significa confrontarsi ogni giorno con storie difficili. Molte famiglie vedono in noi l’unica possibilità di aiuto, ma spesso si aspettano soluzioni immediate e totali. Ho seguito una madre con tre figli, fuggita da un marito violento. Non aveva lavoro, né una rete di supporto. All’inizio rifiutava qualsiasi percorso di autonomia, perché pensava che il servizio dovesse trovare per lei casa, lavoro, tutto. È stato un lavoro lungo, ma poco alla volta, ha iniziato a prendere in mano la sua vita. Tuttavia, la paura di perdere i sostegni è sempre stata un ostacolo.”

A., psicologa del servizio

“Una delle difficoltà più grandi nel nostro lavoro è il senso di impotenza, che a volte proviamo. Le storie che ascoltiamo sono spesso così dolorose da farci sentire piccoli di fronte alla grandezza dei problemi. Molte madri arrivano da noi con un senso di sconfitta totale, schiacciate dal quartiere, dalla povertà, dalla violenza domestica o dalla solitudine. Una donna nordafricana, che seguivo, mi diceva spesso: ‘Mi sento come un fantasma, nessuno mi vede, nessuno mi ascolta’. Dopo mesi di incontri, ha iniziato a parlare di più, a chiedere aiuto per i figli, a cercare un piccolo lavoro. Ma per molte donne straniere il problema più grande è la lingua: senza quella, tutto diventa più difficile.”

“Una delle storie che mi ha colpita di più è quella di A., una donna tunisina di 32 anni con due bambin*. È arrivata in Italia seguendo il marito, che però la teneva isolata, senza permetterle di lavorare o studiare l’italiano. Quando l’ho incontrata, parlava pochissimo e abbassava lo sguardo ogni volta che le facevo una domanda. Sembrava invisibile, come se non avesse diritto a esistere. Abbiamo iniziato un percorso d’incontri individuali e di gruppo con altre donne. All’inizio, partecipava solo per accontentare l’assistente sociale, senza davvero coinvolgersi. Poi, piano piano, ha iniziato ad aprirsi, a raccontare della sua paura di restare sola, della sua voglia di essere una madre migliore per i suoi figli. Oggi sta cercando un lavoro e sta ricostruendo la sua vita, ma ci sono voluti più di due anni per arrivare a questo punto. La strada è lunga e il rischio di ricadere nella paura e nell’isolamento è sempre presente. Noi operatori dobbiamo accettare che non possiamo risolvere tutto, ma possiamo accendere una scintilla. E a volte, quella scintilla è sufficiente.”

 

Testimonianze delle famiglie

F., madre di tre bambini, proveniente dal Marocco

“Quando sono arrivata in Italia, non conoscevo nessuno. Mio marito lavorava sempre, io ero chiusa in casa con i bambini. Poi ho trovato lo Spazio Mamme. All’inizio non volevo parlare con nessuno, mi vergognavo. Le operatrici mi hanno aiutata a iscrivermi a un corso di italiano. Ora posso parlare con le maestre di mio figlio e andare a fare la spesa senza paura. Ma trovare un lavoro è ancora difficile. Vorrei dare di più ai miei figli, ma non so come fare.”

 

S., madre cossovara single di due bambine

“Ho sempre vissuto a Ponte di Nona, e qui le cose sono difficili. Ho cresciuto i miei figli da sola, senza aiuti. Quando ho chiesto supporto per loro, mi hanno detto che potevo partecipare a incontri con altre mamme. All’inizio mi sembrava inutile, io avevo bisogno di soldi per pagare l’affitto! Poi ho capito che parlare con altre donne nella mia situazione mi aiutava. Ora mi sento meno sola e ho iniziato un corso per operatore socio sanitario. Speriamo che serva a qualcosa.”

 M., padre marocchino di un bambino di 4 anni

“Io ho sempre lavorato, ma con stipendi bassi. Mia moglie non esce di casa, parla poco l’italiano. Abbiamo avuto problemi con i documenti e non sapevamo come fare per l’asilo di nostro figlio. Lo Spazio Mamme ci sta aiutando molto, mia moglie partecipa ai laboratori d’italiano e sartoria, ma a volte sembra che per noi stranieri tutto sia più complicato. Il mio sogno è che mio figlio possa studiare e avere una vita migliore di quella che abbiamo avuto noi.”

F., madre marocchina di tre bambini

“Quando sono arrivata in Italia, mi sentivo completamente sola. Non conoscevo la lingua, non avevo nessuno. Mio marito lavorava tutto il giorno e io rimanevo chiusa in casa con i bambini. Non sapevo come funzionava nulla: l’iscrizione alla scuola, i documenti, il medico. Avevo paura anche di uscire da sola. Un giorno, un’amica mi ha parlato dello Spazio Mamme. All’inizio ero diffidente, non volevo chiedere aiuto. Ma quando ho portato mio figlio lì per un’attività, le operatrici mi hanno parlato con gentilezza, senza farmi sentire un peso. Frequentando il laboratorio d’italiano riesco a parlare un po’ meglio, posso accompagnare i miei figli dal medico senza avere paura, ma trovare un lavoro è difficile. Vorrei dare di più ai miei bambini, ma non so da dove cominciare. Per ora, mi accontento di aver trovato un posto dove posso sentirmi meno sola. 

A., madre single di due bambini

“Ho sempre vissuto a Ponte di Nona, ma qui la vita è dura. Mio marito se n’è andato quando ero incinta del secondo figlio, e da allora ho dovuto fare tutto da sola. Quando mi sono rivolta al servizio, ero disperata: non avevo soldi per l’affitto, i bambini erano piccoli e non avevo nessuno che mi aiutasse.

All’inizio mi sembrava inutile. Io volevo un aiuto concreto: cibo, vestiti e un aiuto economico, non un gruppo di mamme con cui parlare. Ma poi ho capito che avere qualcuno con cui sfogarmi, qualcuno che mi ascoltasse senza giudicare, era importante. Ho seguito un corso per assistente familiare e ora ho trovato un lavoretto. Non è molto, ma almeno mi sento utile”.

E., di origine somala, madre di quattro bambini

“Quando ho incontrato il mio compagno, sembrava l’uomo perfetto. Poi sono iniziate le critiche, le umiliazioni, le spinte. Quando mi ha colpita davanti ai nostri figli, ho capito che non potevo più restare. Ma come andarmene? Non avevo un lavoro, nessun parente vicino. Grazie alle operatrici dello Spazio Mamme e di Germogli, ho trovato un posto sicuro per me e i miei bambini. Ora sto cercando di ricostruire la mia vita, ma la strada è ancora lunga.”

E., di origine nigeriana madre di due bambini, uno con diagnosi Disturbo dello Spettro Autistico
“Mio marito non voleva che lavorassi, che studiassi, che parlassi con nessuno. E se provavo a rispondere, mi colpiva. Ho sopportato per anni, perché pensavo fosse normale. Nel mio paese una donna deve obbedire al marito. Poi un’operatrice mi ha detto che avevo il diritto di essere libera, che non era colpa mia. Ho trovato il coraggio di farmi aiutare, ho iniziato un percorso in cui mi sento accompagnata e rassicurata. Grazie allo Spazio Mamme ora mio figlio è seguito a scuola e fa terapia.

 

Riflessioni finali

Queste testimonianze mostrano il complesso intreccio di difficoltà economiche, sociali e psicologiche che alcune famiglie affrontano a Ponte di Nona. Il lavoro sociale è profondamente coinvolgente, ma anche pieno di sfide. L’equilibrio tra empatia e distanza professionale è qualcosa che si costruisce nel tempo, attraverso l’esperienza, il confronto con i colleghi e le colleghe e il supporto di una rete professionale. Compito degli operatori e delle operatrici è di bilanciare il supporto con la necessità di promuovere autonomia, affrontando la resistenza e la sfiducia delle persone. Tuttavia, ogni piccolo cambiamento rappresenta una vittoria: una madre che trova il coraggio di lasciare un compagno violento, un padre che esce dalla dipendenza dai sussidi, una donna che impara a parlare italiano.

Il cammino è lungo, ma la presenza di un supporto può fare la differenza tra la rassegnazione e la speranza.

Per maggiori approfondimenti sui diritti di bambini e bambine e sulla genitorialità responsiva consulta il sito di Save the Children.