Mai come in questo periodo di distanziamento sociale siamo chiamati a riflettere sulle implicazioni della riduzione delle relazioni tra gli esseri umani. Le relazioni affettive, quelle professionali, quelle amicali e quelle occasionali sono la materia prima di processi profondi di strutturazione delle personalità individuali, ma, soprattutto, sono il regolatore della qualità della vita sociale, perché determinano la temperatura della fiducia reciproca, l’atteggiamento nei confronti dello spazio pubblico, l’approccio alla conoscenza e al rispetto delle persone, delle cose e degli ambienti.
Le relazioni accompagnano, rassicurano, esprimono solidarietà e conforto, indirizzano, producono innovazione, cultura, arte, sicurezza. Attraverso le relazioni si consolidano le libertà personali e collettive, si sedimentano i meccanismi di trasferimento delle conoscenze tra le generazioni.
Insomma, quando si verifica un’alterazione della qualità e quantità delle relazioni gli effetti possono essere devastanti. Ne sono un esempio drammatico, ben prima dell’emergenza sanitaria in corso, le diverse forme di violenza di genere, specie quelle che si consumano tra le mura domestiche, o il maltrattamento e la trascuratezza di bambini e bambine, l’aggressività e il bullismo nei gruppi di pari, la violenza della comunicazione online. E molto altro ancora.
Per quanto si potrebbe parlare a lungo, e in modo certamente più qualificato, delle ragioni che sovrintendono allo strutturarsi delle relazioni nei diversi contesti di interazione sociale, c’è un’area sensibile sulla quale merita soffermarsi, ed è quella che riguarda la primissima infanzia.
Il migliore inizio passa per le relazioni
Nel documento Nurturing Care Framework, a cura di World Health Organization, United Nations Children’s Fund e World Bank Group, pubblicato nel 2018 e prodotto da un panel internazionale di studiosi e professionisti delle principali agenzie impegnate sul benessere della prima infanzia, si cita una felice affermazione del pediatra americano Dimitri Christakis: “se cambi l’inizio della storia cambi tutta la storia”.
L’inizio della storia è quello che si fa coincidere coni cosiddetti primi 1000 giorni, spazio di tempo nel quale il cervello di una piccolissima persona subisce un processo di accrescimento ponderale e neuronale straordinario. E periodo nel quale si perfezionano la capacità di riconoscere se stesso e gli altri, la sensibilità verso lo spazio e le cose, il senso della cura ricevuta e data, la percezione delle grandezze, delle quantità, del piacere di un contatto.
E tutto questo passa, oltre che nel latte materno, attraverso le mani, gli occhi, le voci, la pelle dei genitori, degli altri adulti di riferimento, ma attraverso gli sguardi curiosi e gli scambi con i coetanei e le coetanee.
Non di solo latte
Ancora oggi la percezione di un neonato difetta degli aspetti relazionali. Nell’immaginario sociale spesso un neonato è un piccolo coacervo di necessità primarie, latte-sonno-cacca, gestito dentro le mura di una casa, con il supporto periodico di una figura pediatrica. Spostare l’asticella di percezione sulle relazioni significa passare dalla visione nucleare – mamma, papà e pediatra che cercano di assicurare le funzioni essenziali dell’accudimento – alla visione olistica di una piccola comunità di personaggi che si prendono cura di un nuovo arrivato, attraverso il supporto ai genitori, la predisposizione di spazi attrezzati, l’offerta di servizi educativi e nidi di qualità, l’integrazione tra la dimensione sanitaria, quella sociale e quella educativa. Non di solo latte ha bisogno una piccola persona, ma di attenzioni, di parole, di gioco, di lettura ad alta voce, di serenità e supporto ai suoi genitori, di accoglienza sociale. In una parola di una comunità di cura o, come forse ancor meglio dicono i documenti ufficiali, di un Nurturing Care Famework.